Intervista a Daniel Michael Portolani

Intervista al dott. Daniel Michael Portolani. In occasione della Giornata Mondiale che ricorre ogni 18 febbraio, lo psicologo, psicoterapeuta e sessuologo clinico Daniel Michael Portolani ci parla delle neurodivergenze e di cosa comporti essere una persona LGBTQI+ neurodivergente.

DPartiamo dalle basi: cosa si intende per neurodivergenza? E che specifiche difficoltà incontra chi ne ha una?

R – Il termine “neurodivergenza” viene utilizzato per indicare tutte quelle situazioni di diversità neurobiologica per cui le modalità con cui una persona incontra e processa le informazioni che derivano dal proprio corpo, dal mondo interiore o da quello circostante si situano al di fuori della neurotipicità, ovvero della tipicità statistica. Il termine si situa entro il più ampio paradigma della neurodiversità, secondo il quale ogni individuo è neurodiverso; ovvero, ogni pattern di funzionamento cerebrale (neurotipo) si colloca entro uno spettro di differenze neurocognitive naturali, che si combinano in modi idiosincrasici rendendo conto dell’unicità di ognunǝ.

Essere neurodivergenti non comporta di per sé una difficoltà; ogni modo differente di apprendere e processare le informazioni comporta vantaggi e svantaggi a seconda dei contesti che incontra. Inoltre, lo spettro delle neurodivergenze è estremamente variegato e si manifesta in modi molto diversi, che rendono conto di caratteristiche uniche (solo per citarne alcune, entro l’ombrello neurodivergente è possibile ritrovare autismo, ADHD, altissimi potenziali cognitivi, dislessia e molte altre… e in ognuna di queste categorie si ritrovano differenze individuali e soggettive!).

Tuttavia, è possibile dire che molte persone neurodivergenti incontrano alcune difficoltà abbastanza comuni perché incontrano un mondo pensato da e per persone neurotipiche. Secondo la letteratura, è possibile ritrovare sfide e difficoltà nella sfera socio-relazionale, lavorativa, scolastica e di salute fisica e mentale. Queste difficoltà sono la sintesi complessa di: fenomeni di stigma e discriminazione abilista; difficoltà a comprendere le modalità di incontrarsi, comunicare, mantenere i rapporti sociali altrui (e di vedere comprese dall’altro le proprie, in una difficoltà di comprensione che è sempre bidirezionale); modalità di processamento sensoriale uniche, che a volte comportano l’impossibilità di accedere o di performare al proprio meglio in alcuni contesti; caratteristiche soggettive e caratteristiche specifiche dei contesti in cui si gioca la diversità.

DSecondo una serie di recenti studi (tra gli altri, sul suo sito internet lei cita Sala et al. 2020; Pecora et al. 2020; George & Stokes 2018), la percentuale di persone neurodivergenti che si identifica come LGBTQI+ è di molto maggiore rispetto alla media della popolazione LGBTQI+ non-neurodivergente. Qual è la spiegazione che la scienza si è data e cosa comporta tutto ciò?

R – Le spiegazioni che sono state proposte sono diverse. Oggi consideriamo superate le narrative che propongono una correlazione causale tra neurotipo e diversità sessuale/di genere e le teorie che propongono un substrato genetico comune. Ci orientiamo piuttosto sul ruolo di fattori individuali, storici e psicosociali. Ad esempio, una ridotta sensibilità alle norme socioculturali o una grande importanza attribuita a valori come autenticità e giustizia può rendere l’individuo meno schiavo di modalità imposte e più propenso ad esplorare e mostrare lati di sé culturalmente considerati non accettabili. Inoltre, la necessità di farsi domande su di sé alla luce di una differenza può comportare una maggiore introspezione e quindi una migliore comprensione dei propri modi di essere. Altre volte ancora, le proprie caratteristiche rendono la persona più incline a ricercare contesti e situazioni che la facciano sentire comoda; potrebbe essere il caso, ad esempio, di alcune delle persone che prediligono configurazioni relazionali non monogame o pratiche sessuali come il BDSM.

Purtroppo, a volte il fatto stesso di indagare le cause di modi differenti di essere ne suggerisce l’anormalità e apre la strada per la delegittimazione della loro esistenza alla luce di criteri arbitrari, come aspetti biologici o psicosociali. Il punto fondamentale non è allora il perché, ma riconoscere la possibilità che diverse identità siano legittimamente compresenti e assicurarci di essere capaci di accogliere e validare coloro che vivono nella loro intersezione, nella consapevolezza delle peculiarità delle sfide che affrontano.

Le persone neurodivergenti LGBTQI+ esperiscono “svantaggio intersezionale”, ovvero, la maniera complessa e cumulativa in cui gli effetti della discriminazione in merito alle diverse identità della persona si combinano, si sovrappongono e si intersecano. Questo comporta, ad esempio, più alto rischio di bullismo, isolamento, discriminazione e di conseguenza di difficoltà di salute mentale. Ci sono inoltre difficoltà legate a dover effettuare un “doppio coming out” e alla mancanza di spazi intersezionali che accolgano tutte le sfumature identitarie della persona, cosa che non di rado comporta isolamento, non appartenenza e discriminazione intra-gruppo. A questo si unisce la presenza di barriere istituzionali e di accesso a cura e supporto. Ad esempio, l’impreparazione da parte dei servizi sanitari o dei servizi anti-discriminazioni e la non inclusività dei programmi di educazione sessuo-affettiva.

DQuali sono gli stereotipi e pregiudizi più diffusi sulle persone con neurodivergenza (e, in particolare, che abbiano una neurodivergenza e siano anche LGBTQI+)?

R – Ce ne sono moltissimi, a partire dal fatto che spesso consideriamo le persone neurodivergenti come tutte uguali tra loro, o come coincidenti tout-court con le persone autistiche, cancellando di fatto la diversità intrinseca all’ombrello. Partendo da questo presupposto e dalla difficoltà di una risposta univoca, esistono ad esempio stereotipi e pregiudizi legati all’idea che le persone neurodivergenti siano molte meno di quanto non siano; siano affette da una patologia; siano necessariamente sofferenti e insoddisfatte della propria esistenza; non possano avere una vita felice e produttiva come individui, partner o membrɜ attivɜ della società; siano esclusivamente di genere maschile; non abbiano una sessualità attiva; non siano empatiche, o siano fredde e anaffettive.

Purtroppo, un pregiudizio molto diffuso riguarda l’impossibilità delle persone neurodivergenti di comprendersi, e di conseguenza la squalifica delle identità dichiarate come frutto di confusione o deficitarietà. Come conseguenza, le persone neurodivergenti spesso non vengono credute quando fanno coming out come persone LGBTQI+ e le persone transgender incontrano problemi nei percorsi affermativi di genere quando fanno coming out come persone neurodivergenti. Queste criticità vanno ulteriormente differenziate per identità diverse: ad esempio, se una persona neurodivergente fa coming out come persona asessuale verrà creduta maggiormente, alla luce del pregiudizio di matrice abilista.

DIl filosofo Ludwig Wittgenstein disse che “i limiti del mio linguaggio costituiscono i limiti del mio mondo”. Quali sono i termini giusti da utilizzare per non discriminare e/o stereotipizzare chi ha una neurodivergenza?

R – Il linguaggio inclusivo e relativo alle differenze è in costante evoluzione e proporre direttive universali e definitive purtroppo non è possibile. Attorno ad alcune modalità linguistiche sono tutt’ora presenti dibattiti entro e fuori la comunità.

Uno di questi riguarda, ad esempio, l’utilizzo di un linguaggio identity first (“persona neurodivergente”) o di un linguaggio person-first (“persona con neurodivergenza”). Quest’ultima modalità viene oggi considerata non idonea da una fetta maggioritaria di persone neurodivergenti in quanto tende a “separare” il neurotipo dall’individuo, considerandolo come un’aggiunta, tendenzialmente negativa, o come un disturbo. Molte persone neurodivergenti vedono invece il proprio neurotipo come una parte fondamentale di sé, e chiedono che questo venga rispecchiato nel linguaggio. Da notare un dato che potrebbe far riflettere: in letteratura alcuni studi segnalano una spaccatura tra i dati che indicano la preferenza per il linguaggio identity first, soprattutto tra individui autistici adulti, e le organizzazioni che offrono loro sostegno, che tendono ad utilizzare un paradigma person-first!

Un’altra riflessione riguarda l’utilizzo del termine “sindrome di Asperger”, che oggi non è più utilizzato come termine diagnostico e viene rigettato da una grande parte della comunità autistica per due ragioni principali: la sua origine come termine medicalizzato e patologizzante, e i legami con il regime nazista dello psichiatra omonimo. Oggi preferiamo usare la parola “spettro dell’autismo”, entro cui si situano anche coloro che una volta ricadevano nella suddetta categoria.

Allo stesso modo, in coerenza con il paradigma della neurodiversità, sarebbero da evitare terminologie medicalizzanti e patologizzanti. “Spettro autistico”, “condizione”, “differenza”, “caratteristiche/tratti”, “co-occorrenza”, sono oggi diciture preferibili rispetto a “disturbo dello spettro dell’autismo”, “deficit”, “sintomi”, “comorbilità”.
Ancora, sempre parlano di autismo, non parliamo più di “alto/basso funzionamento”; queste modalità di divisione sono imprecise, de-umanizzanti, divisive, alimentano il masking e invisibilizzano o minimizzano le sfide che la persona affronta. È più utile descrivere la persona nello specifico delle sue capacità; se è necessario, si può usare la terminologia adottata nella clinica, che differenzia tre livelli di necessità assistenziale della persona.

Come tutte le indicazioni linguistiche, in ogni caso, la singola persona è la referente unica dei modi che la descrivono: la regola aurea è quindi quella di non assoggettare per riduzione la persona a una categoria, rispettare le parole che usa per sé, e chiedere laddove non si conoscano.

DParks è un’associazione no-profit composta da circa 130 aziende, enti e istituzioni che cercano, ogni giorno, di rendere il proprio ambiente di lavoro sempre più inclusivo. Quali consigli darebbe alle persone “alleate” (quindi non neurodivergenti e/o non LGBTQI+) affinché possano far sentire accolte/i chi lo è?

R – A livello istituzionale e organizzativo, la creazione di policy inclusive delle differenze e protettive in merito alle discriminazioni sarebbe un passaggio utile e importante. Possono rientrare tra queste: specificare i propri pronomi nelle firme e nelle bio; opzioni linguistiche inclusive come la schwa; possibilità di “profilo alias” per le persone che lavorano nell’organizzazione; modulistica inclusiva di differenti identificazioni di genere che esulano dal binario; chiare e diffuse policy anti-discriminazioni interne; giornate di formazione sui bias impliciti; celebrazione delle ricorrenze importanti per le comunità di minoranza.

Le modifiche neuro-inclusive sul luogo di lavoro possono contemplare: possibilità di modalità di lavoro flessibile e inclusiva, ad esempio, lo smart-working per persone con profili sensoriali propri; ambienti che limitino il sovraccarico sensoriale (ad esempio, la presenza di luci regolabili, l’assenza di musica di sottofondo particolarmente alta); orari di lavoro inclusivi per differenti ritmi sonno-veglia; pause che consentano la corretta gestione energetica; modalità di comunicazione scritta anziché orale. Alcune di queste possono essere implementate fin dalla fase di reclutamento e inserimento di nuovo personale; ad esempio, interviste in cui chiedere alla persona di cosa ha bisogno per essere “comoda” in un ambiente, o in cui si specifica chiaramente come è un giorno tipico di lavoro, come è strutturato fisicamente il luogo, eccetera, possono essere molto utili. Nella fase di lavoro, una corretta assegnazione dei compiti può fare la differenza, per la persona e per l’organizzazione: impiegatɜ neurodivergenti possono mettere in campo risorse straordinarie, tra cui pensiero laterale, abilità di pensiero stategico e iper-focalizzato, meticolosità, coerenza, eccetera, se vengono messɜ nella condizione di farlo.

Tutto questo dovrebbe vedere, tutte le volte che è possibile, il coinvolgimento in prima persona di coloro che incarnano una o più identità minoritarie nell’analisi e nella revisione dei processi di inclusione e diversità.