17 FEBBRAIO 2011. SI PARLA DI PARKS SU “NOVA 24”, L’INSERTO SETTIMANALE DE “IL SOLE 24 ORE”.
Imprese ricche con la diversità.
Con le reti sociali le imprese coinvolgono comunità multiculturali e multigenere.
One company one brand, recitavano i cultori dell’impresa monolite in voga fino a qualche anno fa, viatico per politiche di globalizzazione nelle multinazionali d’ogni genere. Ma i tempi cambiano e così anche le imprese – con la complicità delle nuove tecnologie – diventano liquide. Nell’azienda 2.0 si moltiplicano pratiche di diversity. E l’attenzione alle comunità multiculturali e multigenere diventa un must.
Comunità di ogni sorta, segmentate, inclusive. Comunità che diventano community sull’Intranet aziendale o sul sito istituzionale, grazie all’uso intensivo dei social network, Facebook e Linkedin in testa.
Processo irrefrenabile quello del diversity, ma in Italia ancora poco strutturato, stando all’ultima ricerca promossa dal laboratorio di comunicazione interna dell’Università Iulm di Milano disponibile in anteprima per Nòva24: delle aziende intervistate (in tutto 90, soprattutto multinazionali) il 60% implementa politiche di diversity da meno di 6 anni. Anche se nella maggioranza dei casi il vertice aziendale è poco coinvolto e non esiste un budget dedicato.
Ma il laboratorio – al quale partecipano aziende d’eccellenza come IBM, Henkel, illycaffè, Indesit, Iper, Micron, Natuzzi, NH Italia, Porsche e Unicoop Firenze – evidenzia anche altri dati significativi. Come le diversità più studiate: in testa il genere, a seguire la genitorialità e infine la disabilità. Politiche intraprese dal top management soprattutto per rispondere alle aspettative dei collaboratori (41%). Il laboratorio, che presenterà i dati della ricerca mercoledì 16 marzo all’Università Iulm, fotografa i principali benefici ottenuti dall’azienda: si segnalano il miglioramento della motivazione (87%) e della reputazione (60%). Anche se la scarsità di risorse è uno dei principali ostacoli e incide addirittura per il 37% «Le aziende nostrane prediligono un approccio legato alla responsabilità sociale. Le politiche cosiddette di diversity management sono molto orientate a rispondere alle aspettative di comportamenti di cittadinanza responsabile. Questo implica il prediligere pratiche di conciliazione di equilibri personali e professionali», evidenzia Alessandra Mazzei, Università Iulm e a capo del laboratorio.
Per molte azienda diversità significa adottare tecnologie per il lavoro a distanza, come quello flessibile (83%) o iniziative di work-life balance (54%). In rete si comunica meglio e in modo profilato: si moltiplicano spazi sulle web tv aziendali (39%) e proliferano gruppi spontanei di discussione anche sulla Intranet (11%). Sull’esterno forte rilevanza assumono sezioni specifiche sul sito (44%).
Ma attenzione. «C’è scarso interesse verso i temi della nazionalità, razza e lingua, a testimonianza che la forza lavoro non è ancora così multiculturale nelle nostre imprese. Bassissima attenzione alla diversità di orientamento sessuale», lancia l’allarme Mazzei.
Anche per colmare questo vuoto è nata Parks, associazione tra aziende impegnata a redigere programmi per le comunità aziendali glbt, acronimo che sta per gay, lesbian, bisexual e transgender: i soci fondatori sono Citi, Ikea, Lilly, Johnson&Johnson, Linklaters, Telecom Italia e Gruppo Consoft. «Con Parks cerchiamo di far comprendere l’importanza di ambienti di lavoro inclusivi: affianchiamo le imprese nel mettere in atto strategie che garantiscano le migliori condizioni lavorative per tutti i dipendenti, qualsiasi sia il loro orientamento sessuale», afferma Ivan Scalfarotto, fondatore e direttore generale di Parks.
Diversità come accrescimento. Con un occhio al rapporto intergenerazionale. Precisa Mazzei: «In futuro sarà strategico occuparsi della gestione di più generazioni sul luogo di lavoro. Oggi si intravedono crescenti differenze: dall’uso delle tecnologie alla priorità dei valori, motivazioni, aspirazioni».
di Giampaolo Colletti
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