Margherita Graglia – psicologa, formatrice e saggista, nonché membro del Comitato Scientifico di Parks – analizza il fenomeno del Coming Out e del minority stress per le persone LGBTQI+.
Margherita Graglia è autrice di numerose pubblicazioni, tra cui, per Carocci editore: “L’incongruenza di genere in adolescenza. Pratiche cliniche ed educative” (2024); “Le differenze di sesso, genere e orientamento. Buone pratiche per l’inclusione” (2019); “Omofobia. Strumenti di analisi e di intervento” (2012).
D – Uno studio condotto nel 2023 dall’Università di Modena e Reggio Emilia dimostra che la popolazione LGBTQI+ è esposta a un maggiore rischio di soffrire di disturbo post-traumatico da stress rispetto al resto della società, in quanto potenzialmente più soggetta a subire episodi di discriminazione. Cos’è il minority stress? In che condizione psico-fisica si trova chi lo esperisce?
R – Il “minority stress” è un concetto psicologico che descrive lo stress cronico vissuto da individui appartenenti a gruppi minoritari, come le persone LGBTQI+, a causa di stigma, discriminazioni e pregiudizi. Questo tipo di stress non si limita a eventi singoli ma si accumula nel tempo, portando a un sovraccarico emotivo e psico-fisico, rischiando appunto di diventare cronico. Le persone che sperimentano il minority stress possono trovarsi in uno stato di costante allerta, con sintomi tipici dell’ansia e del disturbo post-traumatico da stress, come insonnia, irritabilità, difficoltà di concentrazione e sensazioni di isolamento. A lungo termine, questo può influire sulla salute mentale, portando a un aumento del rischio di sviluppare depressione e ansia.
La ricerca dell’Università di Modena e Reggio Emilia sottolinea che, oltre ai traumi acuti, come ad esempio aver subito una discriminazione, anche le microaggressioni quotidiane – comportamenti, commenti o atteggiamenti sottili e spesso involontari che comunicano pregiudizi o stereotipi negativi – contribuiscono a questo stress complessivo. Pur sembrando comportamenti innocui in realtà si accumulano nel tempo aggravando i sintomi del minority stress.
Un altro studio recente, del 2024, del Boston Consulting Group (BCG) evidenzia una significativa correlazione tra la percezione di inclusione sul posto di lavoro e la probabilità di affrontare il burnout lavorativo. I dipendenti che si sentono meno inclusi, in particolare quelli appartenenti a gruppi marginalizzati come donne e persone LGBTQ+, riportano tassi di burnout fino al 26% più elevati rispetto ai loro colleghi.
D – Quando si parla di minority stress, spesso si cita il coming out come una delle possibili soluzioni. Quali sono benefici e rischi del coming out? È sempre bene o necessario dichiararsi, soprattutto al lavoro?
R – Il coming out può rappresentare un momento di espressione di sé e autenticità, con benefici significativi per il benessere psicologico. Dichiarare apertamente la propria identità può ridurre il minority stress, abbassando l’ansia legata al nascondere una parte fondamentale di sé e migliorando l’autostima e la soddisfazione personale.
Sul lavoro, il coming out può inoltre favorire relazioni più genuine e una maggiore integrazione nel team lavorativo. Tuttavia, fare coming out può comportare anche dei rischi, soprattutto in contesti in cui i pregiudizi e la discriminazione sono radicati. In questi ambienti, dichiararsi apertamente può esporre le persone a possibili reazioni negative, isolamento o addirittura a ripercussioni professionali, come la mancata assunzione, promozione o il mobbing.
Decidere se fare coming out o meno è una scelta personale, tuttavia è anche influenzata dal contesto lavorativo e dal livello di sicurezza percepito. Le aziende hanno quindi la responsabilità di creare un clima aperto e inclusivo, dove ciascuno possa sentirsi libero di essere sé stesso senza timore di subire discriminazioni. In un contesto lavorativo inclusivo il coming out diventa non solo possibile, ma anche uno strumento per promuovere un clima sereno di accoglienza, fiducia reciproca e collaborazione fruttuosa tra colleghi.
D – Parlando specificamente di benessere della persona in ambito aziendale, ci sono ricerche che dimostrano che non riuscire a creare un ambiento di lavoro inclusivo per le minoranze si tramuta in un danno (anche economico) per le aziende stesse. Come può la dirigenza di un’azienda tentare di contrastare il fenomeno del minority stress?
R – La ricerca condotta da Jointly e TEHA, ad esempio, dimostra che un ambiente di lavoro non inclusivo per le minoranze porta a costi elevati per le aziende, come un aumento del turnover e una diminuzione della produttività. Le organizzazioni che non promuovono il benessere e l’inclusione del personale LGBTQ+ rischiano di perdere talenti e di affrontare un calo della motivazione tra i dipendenti. Questi fattori, insieme a costi diretti legati alla sostituzione del personale, possono tradursi in un danno economico significativo. Investire nell’inclusione è, quindi, non solo etico, ma anche vantaggioso per la sostenibilità aziendale.
Anche il rapporto dell’Agenzia dell’Unione Europea per i Diritti Fondamentali (FRA) intitolato “LGBTIQ at a crossroads: progress and challenges” (2024) evidenzia che, nonostante alcuni progressi, le persone LGBTIQ+ continuano a sperimentare discriminazione, violenza e odio in diversi contesti, incluso quello lavorativo. Le aziende che non riescono a creare ambienti inclusivi per le minoranze tendono a subire perdite in termini di impegno dei dipendenti, maggiore turnover e, di conseguenza, costi elevati legati alla sostituzione e alla formazione di nuovi lavoratori. La ricerca sottolinea l’importanza che gli ambienti di lavoro siano inclusivi per mitigare questi effetti negativi e promuovere il benessere delle persone LGBTIQ+. Le aziende che implementano politiche di inclusione e sostegno per i dipendenti LGBTIQ+ vedono benefici non solo in termini di miglioramento del morale e della produttività dei dipendenti, ma anche in termini di reputazione e attrattività per nuovi talenti. Questi investimenti riducono il minority stress e creano un ambiente di lavoro più sano e produttivo, in cui le persone possono esprimere se stesse senza timore di ripercussioni negative.
Per contrastare il fenomeno del minority stress in azienda, la dirigenza può adottare politiche inclusive mirate. Tra le strategie concrete che un’azienda può adottare, ci sono: programmi di formazione e sensibilizzazione per tutti i dipendenti sui temi della diversità e dell’inclusione, il sostegno a reti interne LGBTQI+ e la promozione di politiche di zero tolleranza verso discriminazioni e molestie. Creare uno spazio sicuro in cui i dipendenti possano sentirsi liberi di esprimere la propria identità senza paura di ripercussioni è fondamentale. Inoltre, misure come la revisione delle politiche di assunzione e avanzamento carriera per garantire pari opportunità a tutti, indipendentemente dall’orientamento sessuale o dall’identità di genere, possono portare a un ambiente di lavoro più equo e stimolante.
In questo modo, oltre a ridurre il minority stress, le aziende rafforzano la loro reputazione e attrattività sul mercato del lavoro, aumentando la soddisfazione dei dipendenti e riducendo i costi associati alla bassa motivazione e al turnover. Le ricerche dimostrano chiaramente come investire nell’inclusione sia una strategia vantaggiosa non solo per il benessere individuale dei dipendenti, ma anche per il successo a lungo termine dell’organizzazione, in sostanza per tutti.
D – Oltre ai livelli apicali, per far sentire davvero accolta la fetta LGBTQI+ all’interno di un’azienda molto possono fare colleghi e colleghe. Quali sono i piccoli (e grandi) gesti da tenere a mente?
R – Per garantire che i colleghi LGBTQI+ si sentano accolti e valorizzati all’interno di un’azienda, ognuno può contribuire attraverso alcuni gesti, semplici ma molto significativi. È importante che tutti abbiano un atteggiamento rispettoso e inclusivo, poiché ciò promuove un ambiente in cui ogni individuo possa esprimere liberamente la propria identità. Si possono prendere in considerazione alcune pratiche inclusive che ho analizzato in modo approfondito nel libo “Le differenze di sesso, genere e orientamento. Buone pratiche per l’inclusione” (Carocci, 2019):